Ogni stagione riformatrice ha i suoi padri costituenti; ogni popolo ha i rappresentanti che si merita: in democrazia, fino a prova contraria, se li elegge da sé.
A scorrere la storia dell’Italia unitaria sembra di assistere ad unica interminabile crisi, prolungata nel tempo, intervallata da brevi intervalli e improvvise vampate, salvo assopirsi nella quiete delle paludi istituzionalizzate, frollando nelle sabbie mobili di un sostanziale immobilismo che viene chiamato “stabilità”.
Ciclicamente, per risolvere le ricadute di una crisi perenne, ci si illude che la soluzione risieda nella stesura di una nuova legge elettorale, come se questa potesse per magica intercessione supplire alle carenze di una classe dirigente inesistente e di una società non meno incivile dei suoi eletti, dando ad intendere che il problema siano i criteri di selezione e non l’infima qualità della materia umana a disposizione. In questa prospettiva, non c’è riforma elettorale che tenga.
A tal proposito, sarà ‘educativo’ notare come circa un secolo fa, mentre il Paese era alle prese con la sua ennesima crisi sistemica che si concluderà con l’avvento del fascismo (ad ogni problema concreto, gli italiani scelgono sempre la soluzione peggiore), la classe politica di allora si concentrò nella stesura di un diverso sistema di voto, sotto l’impulso fortissimo degli emergenti movimenti popolari di massa.
Nell’estate del 1919, dopo due anni e passa di tergiversazioni e continui rinvii, viene promulgata la nuova legge elettorale. Trovato l’accordo in Parlamento, bastano nove giorni per redigere e approvare il testo.
La legge elettorale italiana del 1919 prevedeva l’introduzione della rappresentanza proporzionale e dello scrutinio di lista, in sostituzione del sistema maggioritario su collegi uninominali fino ad allora in vigore. Per stabilire la distribuzione dei seggi veniva introdotto il cosiddetto “Metodo D’Hondt”, dal nome del costituzionalista belga Viktor D’Hondt, e venivano introdotte le preferenze multiple nel voto di lista.
È curioso notare che un sistema elettorale iper-proporzionalista e frammentario, che aveva in massima parte lo scopo di spezzare il monopolio politico della vecchia oligarchia del notabilato liberale incistato sul voto clientelare, fu massimamente sostenuta dall’allora premier Francesco Saverio Nitti, quale miglior sostegno al suo traballante governo.
«Fu Nitti a promuovere la riforma della legge elettorale politica nell’opinione pubblica, nei partiti e nel Parlamento. Il Presidente del Consiglio in persona, con i suoi reiterati interventi nelle istituzioni parlamentari e nelle riunioni politiche da lui convocate per mandare avanti il disegno di legge, divenne il garante dell’introduzione della proporzionale. Nitti pensava che dalla legge sarebbe nata poi una garanzia di stabilità per il suo governo, scommettendo sull’appoggio sia dei socialisti riformisti turatiani che dei popolari sturziani.»
Serge Noiret
“La legge elettorale del 1918-1919”
Meridiana, 1997
Ovviamente si sbagliava. E meno di un triennio dopo, con l’inaugurazione del nuovo corso politico, la legge elettorale veniva già considerata come superata e quindi sostituita con un nuovo sistema…
«L’accordo sulla proporzionale, che coinvolse molte forze politiche anche reticenti, come i giolittiani, fu tuttavia rimesso progressivamente in causa durante gli anni successivi e questo fino all’introduzione di una legge fondamentalmente diversa, come quella voluta da molti liberali, da alcuni cattolici e dai fascisti tra il 1922 e il 1923.»
In pratica si trattava della famigerata Legge Acerbo che, garantendo la vittoria del “listone”, spianò la strada all’instaurazione del regime fascista.
È interessante leggere le motivazioni che portarono alla stesura della legge del 1919. Per la bisogna, riportiamo l’analisi tracciata dal prof. Noiret nel 1997; a patto però di non perdere di vista il calendario, tanto da scambiare date e tempi e luoghi.
Il testo integrale lo trovate [QUI].
«La società civile post-unitaria si sentiva estranea non solo alla sfera politico-amministrativa gravante attorno ai ministeri romani ma anche ai governi ed alla classe politica nazionale e non partecipava se non episodicamente alle grandi scelte del paese. Molti hanno additato le restrittive leggi elettorali censitarie e capacitarie in uso fino al 1912 come una delle cause maggiori di questa estraneità, di questa incomprensione tra politica e società civile.
[...] Per la maggior parte della popolazione, il diritto al voto era comunemente un mezzo per ricevere o fare favori, per acquisire un credito: sulla scia dell’Ottocento si continuava a votare per ottenere qualche cosa come premio o remunerazione del voto e non perché si esercitasse un dovere civico che presumeva la partecipazione dei cittadini ad una scelta di politica e di programmi. Ancora una volta, nell’atto del voto si evidenziava la grande distanza, culturale e politica, tra la maggioranza della popolazione e lo Stato-Nazione, una distanza favorita dalle tipologie di stampo personalistico delle campagne elettorali uninominali.»
In quanto alle motivazioni che portarono la classe politica alla stesura della nuova legge elettorale, esse non andavano oltre i calcoli di bottega e le ambizioni personali, al soddisfacimento delle quali la legge era funzionale.
«[...] In altri termini essi, riflettendo sui possibili benefici di alcuni particolari tecnici della legge, sviluppavano al contempo proprie strategie politiche. Ogni esponente della classe politica si attendeva qualche cosa dalla legge e spingeva verso una decisione vagliando l’impatto di tale o talaltro meccanismo sulla sua potenziale quota di potere parlamentare, influenzando così la struttura della legge.
[...] Le attese di cambiamento della forma di governo, con la quale si pensava di correggere le disfunzioni croniche del sistema politico dell’Italia liberale, erano legate al ruolo che alcuni intendevano dare, nel nuovo sistema politico, ai partiti strutturati e ai programmi elettorali che essi avrebbero proposto a tutta la Nazione. Si guardava alle organizzazioni di partito e alla proporzionale, che ne avrebbe favorito la crescita, come alla panacea che avrebbe fatto uscire l’Italia dalla corruzione politica e dalle disfunzioni patologiche del suo sistema di governo, colto senza maggioranze parlamentari chiare e definite all’alba di un sistema politico di massa.
Questa eredità negativa affondava le sue radici nel “connubio” che la riforma elettorale del 1882, malgrado le aspettative della Sinistra, non aveva saputo correggere. La proporzionale diventava così la soluzione per combattere il trasformismo che tutti ormai criticavano. Proprio come oggi la malattia del sistema politico è individuata nella cosiddetta partitocrazia e nella “colonizzazione” delle istituzioni da parte dei partiti politici, così nel 1919 il male da combattere era costituito dalla ristrettezza di rappresentanza del sistema uninominale e dalla mancanza dei partiti stessi. E mentre oggi si cerca col sistema uninominale di correggere i mali inflitti al sistema politico da quarant’anni di proporzionale, allora si riteneva che la soluzione sarebbe stata proprio l’istituzione di un sistema partitico, il solo capace di rompere la paralisi che soggiogava le volontà riformatrici di gran parte del paese tramite essa. Contro la società politica degli individui, ci si proponeva di favorire l’associazionismo politico in tutte le sue forme: nella società di massa nuove istituzioni rappresentative, essenzialmente partitiche, dovevano collegare i cittadini con i Governi.»Serge Noiret
”La legge elettorale del 1918-1919”
Meridiana,1997
Oggi, a problematiche quasi invariate, si ritiene che la soluzione risieda nel suo esatto contrario per un medesimo prodotto. Peccato infatti che, pur invertendo l’ordine degli addendi, la somma non cambi.
