Incubo UE: dal “pilota automatico” europeista a quello atlantista
di Matteo Bortolon
(08/06/2024)
A pochi giorni dalle elezioni europee l’unica vittoria di cui si può essere sicuri è quella della superficialità e approssimazione. Il dibattito procede a suon di luoghi comuni e cliché, con la proposta politica che assume la serica consistenza di un libro dei sogni; si dibatte non in base alla realtà effettiva ma su quello che si vorrebbe essa fosse.
Non si tratta (solo) di carenza di elaborazione nei contenuti, ma di una strategia di cattura del consenso. Molto comodamente, basta enunciare qualcosa di coerente coi valori predominanti nel proprio elettorato (apertura, europeismo, cosmopolitismo, oppure identità, nazione, protezione) per far presa su di esso, a dispetto della effettiva e concreta applicabilità.
Un reale orizzonte programmatico dovrebbe tener conto della struttura dell’Unione e dei problemi da essa generati. Nessuno di essi è stato risolto in questi anni. Anzi se ne sono aggiunti altri.
A cosa serve il voto europeo?
Prima di tutto andrebbe ricordato che il voto di giugno elegge il Parlamento europeo, che non è il legislatore della UE. Il processo di approvazione delle misure (regolamenti e direttive) passa per tre soggetti: Commissione, Parlamento, Consiglio. L’iniziativa è esclusiva del primo di essi, la Commissione, è una sorta di esecutivo nominato dai governi in carica all’inizio della legislatura: ogni Stato manda un Commissario. L’europarlamento non può proporre nulla, ma solo approvare o modificare quello che la Commissione propone.
Poi il testimone passa al Consiglio, composto dai ministri attualmente in carica. Questo può approvare o meno il testo, ed eventualmente rimandarlo indietro. Questo palleggiare una proposta è detto “trilogo”, perché si svolge fra tre soggetti. Di cui quello meno importante è proprio il Parlamento, che ha una composizione di membri proporzionale (più o meno) alle rispettive popolazioni (gli Stati più popolati mandano più rappresentanti), mentre ogni Stato, anche se microbico come il Lussemburgo, esprime un commissario e un membro del Consiglio.
Tutto ciò riduce fortemente l’importanza del voto di giugno: delle tre istituzioni che costruiscono gli atti della UE ne eleggiamo solo uno e per giunta il meno importante. Ma apre anche interrogativi sulla sostanza di questa democrazia in salsa europea: se non l’eurocamera chi decide le politiche?
La gerarchia occulta e il “pilota automatico”
Occorre ragionare sul ruolo dei governi nazionali nella gestione della Ue, i quali com’è noto nominano la Commissione ed agiscono direttamente nel Consiglio europeo (capi di stato e di governo) e Consiglio dell’Ue (ministri “semplici”). Oltre alle riunioni intergovernative di dubbio profilo formale come l’eurogruppo (ministri delle Finanze solo dell’area euro), eurosummit (capi di stato e governo dell’euro zona). Se si considera la gestione della Crisi del Debito sovrano, non c’è nessun dubbio che i governi abbiano costituito l’attore principale della sua gestione. Ciò spinge a riformulare una posizione secondo cui gli Stati non valgono più nulla, risucchiati dal maligno organismo sovranazionale (e dalla globalizzazione) e divengono totalmente privi di sovranità. Quello che avviene è diverso: prima di tutto sono i parlamenti nazionali ad essere in buona sostanza annichiliti, non solo ad opera della burocrazia della Commissione, ma dagli stessi governi, che fanno uno sporco giochetto delle tre carte: approvano degli atti in Ue (da loro stessi nel Consiglio o dai Commissari da loro inviati) che arrivano ai parlamenti nazionali sotto l’etichettatura “europea” in modo tale da farli approvare a forza (“mica sarete così irresponsabili da non accettare quello che dice l’Europa no?”), anche nel caso di misure che avrebbero suscitato una opposizione irriducibile, o comportato un alto costo politico. Insomma giocare di sponda col processo comunitario serve a far “rientrare dalla finestra quello che si è cacciato dalla porta”, cioè a sbarazzarsi dell’opposizione e ridurre all’ubbidienza la stessa maggioranza. Le direttive comunitarie non sono opzionali, se non vengono attuate ci sono possibili sanzioni. Per cui possiamo dire che il “ce lo chiede l’Europa” non è la morte degli Stati, ma dei parlamenti – notiamo a margine che le situazioni in cui l’Esecutivo inizia a emettere provvedimenti infischiandosene dell’assemblea legislativa è sempre stato associato ad esperienze autoritarie se non fasciste.
In secondo luogo, è vero che la migrazione delle competenze verso la UE diminuisce la sovranità di tutti i membri, ma gli Stati più potenti la recuperano controllando le istituzioni comunitarie; gli altri la perdono e basta. Il modo in cui i primi riescono ad amplificare la loro forza si riflette nella crescente divergenza centro-periferia sul piano economico così caratterizzante gli ultimi decenni dell’Unione, una sorta di integrazione subordinata che sbocca in una gerarchia non esplicita ma saldissima; paesi come la Germania sono ben capaci di usare la loro forza economica per spingere gli Stati più piccoli ad assecondare la loro linea. Niente è più chiaro del fatto che la Crisi del Debito sovrano del 2010-2016 è stata la storia di come Berlino e Parigi, tirandosi dietro i paesi del nord UE hanno imposto alla periferia (Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia: “PIIGS”) un’agenda conforme ai propri interessi (o meglio: delle proprie oligarchie bancarie e aziendali), in specie l’austerità e il rientro del debito a favore delle loro banche, spalleggiate dalla BCE. Il modo in cui tali paesi sono stati obbligati a fare austerità sfida la nozione stessa di Stato sovrano, suggerendo un rapporto semicoloniale. Da ciò si desume che non solo gli Stati più forti sono riusciti a far valere il loro potere, ma agendo attraverso le istituzioni comunitarie lo hanno incrementato è amplificato.
A seguito delle elezioni italiane del 2013, nella conferenza stampa del 7 marzo venne chiesto a Mario Draghi come si poneva l’esito del voto rispetto alla disciplina fiscale (cioè il rispetto dei malfamati parametri di Maastricht):
Domanda: Vorrei avere i suoi commenti sull’incertezza creata dalle recenti elezioni italiane, in cui la maggior parte degli elettori ha votato per partiti che rifiutano la disciplina fiscale da lei sostenuta.
Draghi: Nel complesso, i mercati sono rimasti meno impressionati rispetto ai politici e a voi. Bisogna anche considerare che gran parte dell’aggiustamento fiscale intrapreso dall’Italia continuerà con il pilota automatico.