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ISRAELI EXPERIMENT

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Il governo laburista (risate!) di Sir Keir Rodney Starmer, baronetto del Regno d’Inghilterra, e brutta copia sfigata di Clark Kent senza super poteri, dichiara che non sospenderà la vendita di armamenti all’Israele dell’innominabile Benjamin Milejkowski, l’oriundo americano-polacco-lituano meglio conosciuto come Netanyahu, secondo l’abitudine tutta sionista di cambiarsi nome per renderlo più “ebraico” una volta immigrati in Palestina, perché (sostiene sir Starmer) non ci sono prove che con quelle stesse armi si stia commettendo genocidio.
La differenza risiede nelle distinzioni semantiche; il lessico del linguaggio fa l’eccezione, che consiste nella forma e non certo nella sostanza.
Che poi lo si voglia chiamare sterminio, eliminazionismo, massacro quotidiano, eccidio di massa, o bombardamento strategico (per i tipi che piacciono agli inglesi), gli affari vengono sempre prima di tutto. Ed agli “amici” (soci) tutti è lecito.
Soprattutto se le prove non le si vogliono vedere, ignorando le evidenze. Cercare non serve, dal momento che la realtà te le schiaffa in faccia, specialmente da quando il governo etnocida del boss Milejkowski e della sua gang di invasati ha cominciato la sua operazione speciale, per ripulire la Striscia di Gaza e la Cisgiordania occupata (sotto legge marziale in regime di apartheid da 58 anni), dalla presenza degli animali umani, con conseguente mattanza nel safari organizzato da Tsahal, l’esercito più (im)morale del mondo, per ripristinare finalmente l’antico Regno biblico di Giuda, con l’annessione dell’empia Filiste e delle ricostituite regioni di Giudea e Samaria (e non solo…), previa espulsione di tutti i loro precedenti abitanti non-ebrei, in un condensato intensivo di tutti gli orrori del XX secolo, con una miscela tossica di messianismo, etno-nazionalismo e razzismo viscerale.
La cosa è talmente radicata, e “naturalizzata” nelle coscienze, che nemmeno la nascondono più. I principali quotidiani nazionali ne parlano apertamente, come fosse la cosa più normale del mondo, a compimento di un naturale processo storico:

Il Libano meridionale è in realtà il nord di Israele

«Storicamente parlando, il Libano meridionale corrisponde in realtà al nord di Israele e le radici del popolo ebraico in questa zona sono profonde.
Mentre le IDF combattono per liberare il Libano meridionale dai terroristi di Hezbollah, vale la pena sottolineare un fatto storico intrigante, che molti sembrano aver dimenticato. Essendo cresciuti con un confine internazionale tra lo Stato ebraico e i nostri vicini del nord, diamo per scontato che le cose siano sempre state così e che debbano essere così. Ma la verità è che l’attuale confine tra Israele e Libano ha poco più di un secolo ed è del tutto artificiale, una reliquia di un tempo in cui i colonialisti europei tracciavano capricciosamente delle linee sulle mappe, sorseggiando una bottiglia di brandy in stanze piene di fumo.
Storicamente parlando, il Libano meridionale è in realtà Israele settentrionale, e le radici del popolo ebraico nella zona sono profonde. Se questo possa o debba essere tradotto ora in una realtà politica è una questione molto più complessa, ma non si può semplicemente negare il nostro legame con la terra.
In effetti, ai tempi biblici, il Libano meridionale era chiaramente parte della Terra d’Israele. Nel Libro della Genesi (10:19) si legge: “e i confini di Canaan si estendevano da Sidone verso Gerar fino a Gaza, e poi verso Sodoma, Gomorra, Admah e Tsevoyim fino a Lasha”. Sidone, una città del Libano, si trova circa a metà strada tra l’attuale confine israeliano e Beirut.
Poco prima della sua morte, il nostro patriarca biblico Giacobbe benedisse i suoi 12 figli e la benedizione che diede a Zevulon fu: “Zevulon abiterà presso la riva del mare e diventerà un porto per le navi; il suo confine si estenderà fino a Sidone” (Genesi 49:13).
Il libro di Giosuè (13:6) menziona esplicitamente Sidone come promessa al popolo ebraico, e dice anche (19:28) che il confine della tribù di Aser si estendeva fino a Sidone.
È interessante che il midrash di Bereishit Rabbah (39:8) affermi che fu a Tiro, una città ora 12 miglia (19 chilometri) a nord del confine israeliano, che Dio promise la Terra di Israele ad Abramo.
Il midrash cita il rabbino Levi, che disse: “Quando Abramo stava viaggiando attraverso Aram Naharayim e Aram Nahor, li vide mangiare, bere e divertirsi. Disse: ‘Vorrei che la mia parte non fosse in questa terra’. Quando giunse al promontorio di Tiro, li vide impegnati a sarchiare al momento della sarchiatura, a zappare al momento della zappatura. Disse: ‘Vorrei che la mia parte fosse in questa terra’. Il Santo benedetto sia Lui gli disse: ‘Alla tua discendenza darò questa terra’” (Genesi 12:7).
Ulteriori prove del legame ebraico con la zona si possono trovare nei vari luoghi sacri e nelle tombe dei giusti nel Libano meridionale.
La più nota è la Tomba di Zevulun a Sidone, che per secoli è stata meta di pellegrinaggio per gli ebrei provenienti da tutta la regione e non solo.
Nel XVI secolo, il rabbino italiano Moshe Basola visitò la tomba e ne scrisse, e a metà del XVIII secolo, il rabbino Yosef Sofer disse che le famiglie si riunivano e tenevano pasti festivi accanto ad essa. Il rabbino Natan di Breslov descrisse di aver avuto un’esperienza spirituale edificante alla tomba di Zevulun; e quando Sir Moses Montefiore visitò Israele nel XIX secolo, viaggiò anche lui per vederla.
La tomba di un altro personaggio biblico, Oholiav ben Ahisamakh, che aiutò Bezalel nella costruzione del Tabernacolo nel deserto, si trova nel villaggio di Sojoud, nel Libano meridionale.
Secondo l’archeologo israeliano Zvi Ilan, il luogo di sepoltura di Oholiav era un importante luogo di pellegrinaggio ebraico durante il periodo ottomano. Anche gli arabi locali veneravano il sito e dicevano che era la tomba di un “profeta ebreo”. Ancora all’inizio del XX secolo, gli ebrei di Safed erano soliti recarsi alla tomba per eseguire l’usanza dell’upsherin , il primo taglio di capelli di un ragazzo, qualcosa che oggigiorno viene comunemente fatto a Meron.
Un altro luogo sacro ebraico nel Libano meridionale è la tomba del profeta biblico Sofonia, che si trova nel villaggio libanese di Jabal Safi. Alcuni hanno ipotizzato che il nome del villaggio derivi dal profeta che vi fu sepolto.
Forse non dovrebbe sorprendere che una delle sinagoghe più antiche del mondo si trovi nell’Harat-Al-Yahud, o quartiere ebraico, di Sidone. Costruita circa 1.200 anni fa, nell’833, si ritiene sia stata edificata sul sito di un più antico luogo di culto ebraico risalente a poco dopo la distruzione del Secondo Tempio .
Sebbene non sia più in uso a causa dell’emigrazione della maggior parte degli ebrei libanesi durante la guerra civile del Paese, tra il 1975 e il 1990, rappresenta una testimonianza silenziosa della presenza ebraica di lunga data nella regione.
In che modo il Libano meridionale è stato isolato da Israele?
Quindi, come è stato il Libano meridionale sostanzialmente tagliato fuori dal nord di Israele? L’origine di questa divisione è avvenuta un secolo fa. Dopo la caduta dell’Impero Ottomano, nel 1916 la Gran Bretagna e la Francia raggiunsero un accordo segreto, denominato Accordo Sykes-Picot, che di fatto divise gran parte del Medio Oriente in sfere di influenza tra Londra e Parigi.
 In pratica, venne tracciata una linea su una mappa, e fu quello scarabocchio a costituire sostanzialmente il confine tra Israele e Libano, così come lo conosciamo oggi. All’inizio di quest’anno è stata fondata un’organizzazione israeliana chiamata Uri Tsafon (Risvegliati, o Nord) con lo scopo di incoraggiare l’insediamento ebraico nel Libano meridionale e ha invitato il governo ad agire.
Anche se alcuni potrebbero considerare questa idea un po’ inverosimile, vale la pena ricordare che solo un secolo fa esisteva anche l’idea di uno stato ebraico sovrano.
Dopotutto, i sogni di oggi tendono a presagire la realtà di domani. Soprattutto in Medio Oriente

Michel Freund
(17/11/24)

Questo Freund, immigrato statunitense di chiare origini tedesche, non è un mitomane qualunque, essendo stato il vicedirettore delle comunicazioni sotto il primo ministro Benjamin Netanyahu nel 1996, prima di diventare editorialista del “Jerusalem Post” e molto attivo nello scovare in qualunque angolo del globo i “cripto-ebrei” (!) delle tribù perdute d’Israele, coi quali ripopolare il Medio Oriente, previa cacciata dei suoi abitanti, che sarebbe “dovere morale” spedire ed accogliere altrove.
In quanto alla rimozione coatta delle popolazioni autoctone, per una gigantesca operazione di pulizia etnica, “migrazione volontaria” la chiamano.

Intanto magari si comincia con la deportazione di un milione (ed oltre) di gazawi, a completare il lavoro cominciato 80 anni fa, ora nel deserto del Sinai, ora nella giungla dell’Indonesia, ora nelle savane sudanesi, e adesso in Libia o di ciò che rimane di uno stato fallito dopo l’intervento occidentale, frazionato in entità tribali in guerra tra loro, ma con una solida esperienza in campi di concentramento per la detenzione massiva (e tortura) degli indesiderati. Noi in Italia dovremmo saperne qualcosa
Gli eccidi a cadenza quotidiana, le stragi di massa, i bombardamenti terroristici, i raid notturni, la distruzione capillare di ogni infrastruttura ospedaliera e di assistenza sanitaria, la devastazione scientifica di qualunque tessuto sociale, l’affamamento della popolazione e l’uso della carestia indotta come arma di guerra, sono gli strumenti per “convincere” la popolazione riottosa ad “emigrare”, previo sfoltimento. Così si potrà procedere ad annettere e frazionare il territorio bonificato in nuovi lotti di assegnazione, dopo averli opportunamente ripuliti dei precedenti abitanti, rinchiudendo gli ultimi irriducibili in enclave chiuse e militarizzate, con schedature di massa per la distribuzione di viveri razionati, controllati a vista da compagnie mercenarie private, ad ultimo impressionante corollario di un compiuto colonialismo di insediamento su implicito disegno eliminazionista, e riassumibile in tre parole: sterminare, espellere, ricolonizzare.
Siamo alfine giunti dalle riserve indiane alla creazione dei LAGER. Ma, come abbiamo detto, l’importante è cambiare le parole per rendere accettabile l’indicibile di ciò che non può essere nascosto. Sicché, basterà creare una fantomatica fondazione umanitaria, con scopi “caritatevoli” e finanziatori anonimi, chiamarla “Gaza Humanitarian Foundation”, e affidarle in appalto l’intera gestione dell’arcipelago repressivo e concentrazionario di fresca creazione.

«Israele intende assumere il pieno controllo degli aiuti umanitari in arrivo a Gaza. Il piano include screening biometrici, mercenari statunitensi e un’oscura organizzazione recentemente istituita a Ginevra.
Finora, la Gaza Humanitarian Foundation era praticamente sconosciuta. Istituita solo pochi mesi fa e con sede nel cuore di Ginevra, in Place de Longemalle, annovera tra i suoi membri un avvocato ginevrino. Ora è al centro di una controversa iniziativa israeliana recentemente adottata per assumere il pieno controllo della distribuzione di cibo e aiuti umanitari a Gaza, in coordinamento con appaltatori militari privati.
Nel fine settimana, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato all’unanimità i piani per espandere le operazioni militari a Gaza. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha descritto l’obiettivo come “l’occupazione” del territorio e l’istituzione di una “presenza sostenuta” nella Striscia. La mossa solleva la prospettiva che Gaza venga smembrata, che il suo territorio venga drasticamente ridotto e che la sua popolazione venga sottoposta a ulteriori esodi di massa.
Solo 60 camion al giorno. In questo contesto, Israele ha anche approvato un nuovo schema per la distribuzione di aiuti da cui ora dipendono quasi due milioni di palestinesi. Secondo il piano, solo 60 camion carichi di cibo e beni di prima necessità sarebbero autorizzati a entrare a Gaza ogni giorno, circa dieci volte meno di quanti ne siano entrati durante il cessate il fuoco durato settimane all’inizio di quest’anno. Queste spedizioni sarebbero scortate da mercenari statunitensi e indirizzate verso “centri” designati, dove le famiglie dovrebbero ritirare le loro razioni.
Il personale armato avrebbe supervisionato l’accesso a queste aree fortificate, verificando i nomi con gli elenchi approvati. La tecnologia di riconoscimento facciale sarebbe stata utilizzata per negare l’ingresso – o addirittura “eliminare” – agli individui ritenuti sospetti. Ogni pacco alimentare avrebbe pesato circa 20 chilogrammi e sarebbe stato distribuito ogni due settimane.
La Gaza Humanitarian Foundation fa parte del piano. Registrata a gennaio, la fondazione dichiara nel suo statuto di perseguire “esclusivamente obiettivi caritatevoli e filantropici”. Dichiara la sua intenzione di fornire cibo, acqua, medicine, alloggio e supporto per la ricostruzione a “coloro che sono stati colpiti dal conflitto nella Striscia di Gaza” in modo “sicuro”. Secondo le istruzioni israeliane, la fondazione si farebbe carico almeno in parte del costo di questa “securitizzazione” degli aiuti, apparentemente pagando gli stipendi dei mercenari coinvolti.
A Ginevra, l’avvocato David Kohler – iscritto come membro del consiglio di fondazione e residente allo stesso indirizzo dell’organizzazione – si è rifiutato di commentare le sue origini o i suoi obiettivi specifici. Gli altri due membri indicati sono un avvocato statunitense residente in Virginia e David Papazian, un finanziere armeno ed ex direttore del Fondo di Interessi Statali dell’Armenia. Nessuno dei tre ha esperienze note in ambito umanitario.
“Un nuovo approccio”. Contattata da Le Temps, una consulente statunitense è stata frettolosamente incaricata di gestire le richieste. Descrivendo per iscritto le attività della fondazione, ha affermato: “Nel corso di diverse settimane e mesi, leader umanitari esperti, specialisti regionali, diplomatici ed esperti operativi hanno sviluppato un nuovo approccio per la distribuzione degli aiuti alla popolazione di Gaza, riducendo al minimo il rischio di distrazione da parte di attori non statali”.
Il riferimento è ad Hamas, che Israele accusa di aver dirottato milioni di dollari di aiuti internazionali destinati alla popolazione. Tuttavia, l’identità dei presunti “esperti” umanitari rimane sconosciuta.
“Questa nuova fondazione indipendente sarà guidata dai principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”, ha continuato il consulente, che ha chiesto di restare anonimo.
Ma tali rassicurazioni non bastano a convincere le Nazioni Unite. “In termini di rispetto di questi principi – i pilastri del diritto internazionale umanitario – siamo ben lontani dal rispettarli”, ha dichiarato Jens Laerke, portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) a Ginevra. La scorsa settimana, Israele ha presentato il piano – verbalmente, mai per iscritto – alle agenzie delle Nazioni Unite e alle principali organizzazioni umanitarie. In una ferma dichiarazione congiunta, le agenzie delle Nazioni Unite hanno ribadito che non avrebbero partecipato a tale meccanismo, citando violazioni fondamentali degli stessi principi elencati dal consulente.
‘Militarizzare gli aiuti’. Consegne di aiuti sotto la sorveglianza di mercenari armati? “Questo equivale a militarizzare l’assistenza umanitaria e a trasformarla in un obiettivo militare. È la ricetta per il disastro”, ha avvertito Laerke. Creare centri di distribuzione ovunque le forze di occupazione israeliane scelgano? “L’obiettivo non è più soddisfare i bisogni dei civili, ma utilizzare questi centri come parte di una strategia militare per spostare le persone a piacimento”, ha aggiunto.
Diversi documenti di diritto internazionale, a partire dalle Convenzioni di Ginevra, impongono alle potenze occupanti – come Israele in questo caso – di garantire la distribuzione senza ostacoli di aiuti umanitari. Tali aiuti, come cibo, medicinali e vestiario, devono essere forniti dagli Stati o da “organizzazioni umanitarie imparziali” come il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR). Il nuovo meccanismo israeliano, e in particolare l’oscura Gaza Humanitarian Foundation, può essere considerato imparziale? Gli studiosi del diritto non ne sono convinti. L’esperto Itay Epshtain ha espresso “serie preoccupazioni sul fatto che questa non sia una facilitazione genuina degli aiuti”.
“A Gaza esisteva da tempo un sistema di distribuzione di aiuti umanitari funzionante, ben prima dell’attuale conflitto”, ha concluso Laerke. “Ciò che serve urgentemente è semplicemente rimettere in funzione quel sistema”

(Le Temps, 06/05/2025)

La scelta di costituire una “Stiftung” di diritto svizzero non è affatto casuale, poiché la legislazione elvetica non prevede l’attribuzione di una definizione giuridica e la fondazione può agire come un fondo speciale con personalità propria, senza che sia riconducibile ad un proprietario specifico. In pratica, un paravento dove restano ignoti controllori e finanziatori occulti (difficile indovinare chi siano, eh?!), al di fuori dei prestanome di facciata: oltre al faccendiere armeno David Papazian; tal David Kohler, un oscuro avvocato di Colonia; nonché Marcel Samuel Loik Henderson, uno statunitense che pare essere molto attivo nei servzi di “sicurezza privata”, come la sedicente Protection Strategies Incorporated (una scatola vuota, vera come una moneta da 3 euro, che si preoccupa però di sembrare molto “inclusiva”), e soprattutto in quelle PMC mascherate delle quali si serve il Governo USA per le proprie operazioni più o meno sporche.
Va sa sé che l’estromissione e messa al bando dell’UNRWA fosse parte integrante ed indispensabile tassello di un processo più grande già pianificato da tempo dal governo israeliano, senza alcuna confutazione delle accusa a parte quelle contenute nei siti civitta sponsorizzati a pagamento dal governo israeliano per le operazioni di Hasbarà. Ma tanto è bastato all’Amministrazione Biden ed ai suoi tirapiedi europei, per tagliare fuori da ogni finanziamento l’Agenzia dell’ONU, producendosi in un’unica dichiarazione senza altre confutazioni:

«Gli Stati Uniti sono estremamente turbati dalle accuse secondo cui dodici dipendenti dell’UNRWA potrebbero essere stati coinvolti nell’attacco terroristico di Hamas contro Israele del 7 ottobre. Il Dipartimento di Stato ha temporaneamente sospeso i finanziamenti aggiuntivi per l’UNRWA mentre esaminiamo queste accuse e le misure che le Nazioni Unite stanno adottando per affrontarle.
Il segretario di Stato Antony J. Blinken ha parlato con il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres il 25 gennaio per sottolineare la necessità di un’indagine approfondita e rapida su questa questione. Accogliamo con favore la decisione di condurre tale indagine e l’impegno del Segretario Generale Guterres a intraprendere azioni decisive per rispondere, qualora le accuse si rivelassero accurate. Accogliamo inoltre con favore l’annuncio dell’ONU di una revisione “completa e indipendente” dell’UNRWA. Ci deve essere una completa responsabilità per chiunque abbia partecipato agli efferati attacchi del 7 ottobre.
L’UNRWA svolge un ruolo fondamentale nel fornire assistenza salvavita ai palestinesi, tra cui cibo essenziale, medicine, alloggi e altro sostegno umanitario vitale. Il loro lavoro ha salvato vite umane ed è importante che l’UNRWA affronti queste accuse e adotti le misure correttive appropriate, compresa la revisione delle politiche e delle procedure esistenti.
Gli Stati Uniti hanno contattato il governo di Israele per chiedere maggiori informazioni su queste accuse, e abbiamo informato i membri del Congresso. Rimarremo in stretto contatto con le Nazioni Unite e il governo di Israele riguardo a questa questione

Basta la parola! In concreto, si tratta di un progetto a lungo covato e coltivato ben prima del famigerato 7 Ottobre (da dove NON comincia la storia), perché l’idea in realtà è antica e attuata in più riprese, sfruttando le opportunità offerte da un conflitto endemico cinicamente alimentato.
Il vero problema non risiede nel “come” della sua applicazione ma nel “quando”. Uno dei suoi principali promotori, l’oriundo ucraino Bezalel Smotrich, gli ha dato anche un nome: “Piano Decisivo”; ovvero una soluzione finale del problema arabo (i palestinesi per loro non esistono) su scala ridotta, a grottesca dimostrazione di quanto possa essere tragica l’ironia della Storia, quando l’impunità viene eletta a sistema e tutto è concesso, nel parodosso di replicare le stesse dinamiche dei propri antichi persecutori e reputarle legittime, se esercitate contro terzi nella propria presunzione di eccezionalismo.
Le premesse sono ottime e forniscono l’eloquente base ideologica da cui tutto discende:

«Credo nella Torah che ha predetto l’esilio e ha promesso la redenzione. Credo nelle parole dei profeti che hanno assistito alla distruzione, e non meno nell’edificio rinnovato che ha preso forma sotto i nostri occhi. Credo che lo Stato di Israele sia l’inizio della nostra redenzione in corso, il compimento delle profezie della Torah e delle visioni dei Profeti.
Credo nella connessione vivente tra il popolo di Israele e la Terra di Israele; nel destino e nella missione del popolo ebraico per il mondo intero, e nella vitalità della Terra di Israele per assicurare la realizzazione di questa causa. Credo che non sia un caso che la Terra di Israele stia fiorendo e fiorindo sulla scia del ritorno degli ebrei, dopo tante generazioni di totale abbandono.
Credo che il desiderio di generazioni per questa terra, e la fiducia nel nostro ritorno finale ad essa, siano le forze trainanti più profonde della progressione del Ritorno a Sion che ha portato alla creazione dello Stato di Israele

Giusto a proposito di fondamentalismo religioso e fanatismo integralista.

«Tuttavia, il documento che avete davanti non conterrà nulla che sia basato sulla fede. Non si tratta di un manifesto religioso ma di un documento realistico, geopolitico, strategico. Si basa su un’analisi della realtà e delle sue cause profonde e si fonda su presupposti fattuali, storici, democratici, di sicurezza e politici. Questi ci portano a una soluzione che, per quanto a mio giudizio, ha le possibilità di successo più realistiche, sicuramente rispetto alle altre soluzioni proposte quotidianamente.
Questo documento è un documento pragmatico, ma risiede comodamente nella mia visione del mondo basata sulla fede. Coloro che lo desiderano possono vederlo come nient’altro che una soluzione pratica e politica; Altri sono invitati a vederlo come un incontro tra fede e realismo, visione e realtà

Figuriamoci se fosse stato invece concepito come manifesto religioso!
Segue fumoso pippone metastorico su come i palestinesi non siano un popolo, come non esista alcuna entità palestinese né mai dovrà esistere, e come gli arabi siano tutti terroristi assetati di sangue, in virtù di una natura irriducibilmente malvagia e primitiva. Sono poco più di essere demoniaci che vogliono la distruzione di Israele e si oppongono alle sue legittime aspirazioni a prendersi e tenersi la terra altrui, per diritto divino su predestinazione trascendente ed elezione metafisica.
I fascisti con la kippah sono ossessionati nel conferire una cornice di legittimazione storica nel quadro dei loro deliri biblici, nella convinzione che sia loro tutto lecito per predestinazione divina, immaginandosi infinitamente buoni e generosi senza preoccuparsi di sembrare tali.
 Sicché, il buon Smotrich, nell’ambito della gestione dei conflitti, pensa che il suo “Piano decisivo” sia “una speranza” per risolvere una volta per tutte la quaestione palestinese, “forse difficile da digerire in un primo momento”, ma inevitabile e necessario.
Evidentemente la pensavano così anche i nazisti alla Conferenza di Wannsee, circa la soluzione del “problema ebraico”.
In sintesi,

«Porre fine al conflitto significa creare e cementare la consapevolezza, praticamente e politicamente, che c’è spazio per una sola espressione di autodeterminazione nazionale a ovest del fiume Giordano: quella della nazione ebraica. Di conseguenza, uno Stato arabo che realizzi le aspirazioni nazionali arabe non può emergere all’interno dello stesso territorio. La vittoria implica accantonare questo sogno. E man mano che la motivazione per la sua realizzazione diminuisce, diminuirà anche la campagna di terrore contro Israele.
Questo obiettivo sarà raggiunto anche con dichiarazioni – con una dichiarazione inequivocabile di Israele agli arabi e al mondo intero che non emergerà uno Stato palestinese – ma soprattutto con i fatti. Richiede l’applicazione della piena sovranità israeliana alle regioni centrali della Giudea e della Samaria, e la fine del conflitto attraverso l’insediamento sotto forma di creazione di nuove città e insediamenti in profondità all’interno del territorio e portando centinaia di migliaia di coloni aggiuntivi a viverci. Questo processo renderà chiaro a tutti che la realtà in Giudea e Samaria è irreversibile, che lo Stato di Israele è qui per restare, e che il sogno arabo di uno Stato in Giudea e Samaria non è più praticabile. La vittoria attraverso l’insediamento imprimerà nella coscienza degli arabi e del mondo la comprensione che uno stato arabo non sorgerà mai in questa terra.
Sulla base di questo inequivocabile punto di partenza, gli arabi della Terra di Israele si troveranno di fronte a due alternative fondamentali:

Coloro che desiderano rinunciare alle loro aspirazioni nazionali possono rimanere qui e vivere come individui nello Stato ebraico; naturalmente godranno di tutti i benefici che lo Stato ebraico ha portato e sta portando alla Terra di Israele. Discuteremo più dettagliatamente di seguito lo stato e la gestione della vita di coloro che scelgono questa opzione.

Coloro che scelgono di non abbandonare le loro ambizioni nazionali riceveranno aiuti per emigrare in uno dei tanti paesi in cui gli arabi realizzano le loro ambizioni nazionali, o in qualsiasi altra destinazione nel mondo.
Naturalmente è lecito ritenere che non tutti adotteranno una di queste due scelte. Ci saranno quelli che continueranno a scegliere un’altra “opzione”: continuare a combattere l’IDF, lo Stato di Israele e la popolazione ebraica. Tali terroristi saranno affrontati dalle forze di sicurezza con mano forte e in condizioni più gestibili per farlo.

Per quegli arabi che desiderano rimanere qui come individui e godere di tutto ciò che lo Stato di Israele ha da offrire, dovremo definire un modello di residenza che includa l’autogestione autonoma, comprese le amministrazioni municipali, accanto ai diritti e ai doveri individuali. Gli arabi di Giudea e Samaria condurranno la loro vita quotidiana alle loro condizioni attraverso amministrazioni municipali regionali prive di caratteristiche nazionali. Come altre autorità locali, queste terranno le proprie elezioni e manterranno regolari relazioni economiche e municipali tra loro e le autorità dello Stato di Israele. Col tempo, e a seconda della lealtà allo Stato e alle sue istituzioni, e al servizio militare o nazionale, si renderanno disponibili modelli di residenza e persino di cittadinanza.
Questo piano è il più giusto e morale sotto qualsiasi punto di vista: storico, sionista, ed ebraico

In pratica, siamo alla riproposizione, su scala ridotta a microporzioni individuali ed a condizioni ancora più marginali, dei Bantustan che tanto successo riscossero nel Sudafrica dell’apartheid, col quale peraltro tutti i governi di Israele hanno sempre intrattenuto ottimi rapporti di collaborazione ai tempi felici del razzismo di stato. Evidentemene a Tel Aviv il modello piace ancora. Il piano più giusto e morale di tutti.
Ogni opposizione, qualunque forma di resistenza a tale progetto, è ovviamente liquidata come “terrorismo”.

«La vittoria basata sul diritto del popolo ebraico nella Terra di Israele – anche se prima facie appare unilaterale e aggressiva – porterà al risultato più morale: porrà fine allo spargimento di sangue e permetterà una vera coesistenza tra gli ebrei e gli arabi che sceglieranno questa opzione.
[…] La prima e più importante fase del decisivo piano “Una Speranza” riguarderà l’insediamento. A questo punto stabiliremo il fatto fondamentale più importante: siamo qui per restare. Chiariremo che la nostra ambizione nazionale per uno Stato ebraico dal fiume al mare è un fatto compiuto, un fatto non aperto alla discussione o al negoziato.
Questa fase si realizzerà attraverso un atto politico-legale di imposizione della sovranità su tutta la Giudea e la Samaria, e con atti di insediamento concomitanti: la creazione di città e paesi, la costruzione di infrastrutture come è consuetudine nel “piccolo” Israele e l’incoraggiamento di decine e centinaia di migliaia di residenti a venire a vivere in Giudea e Samaria. In questo modo, saremo in grado di creare una realtà chiara e irreversibile sul terreno.
Nulla avrebbe un effetto più grande e più profondo sulla coscienza degli arabi di Giudea e Samaria, sgonfiando le loro illusioni di uno Stato palestinese e dimostrando l’impossibilità di stabilire un altro Stato arabo a ovest del Giordano. I fatti sul campo sgonfiano le aspirazioni e sconfiggono le ambizioni. Lasciate che i blocchi di insediamenti lo attestino.
Lo sviluppo degli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria in modo sovrano e consolidato contribuirà anche a risolvere la carenza di alloggi nello Stato di Israele. Molti terreni statali in Giudea e Samaria, nel centro del paese, possono essere messi a disposizione a prezzi molto più bassi rispetto alla media delle proprietà all’interno della Linea Verde, aumentando così l’offerta di alloggi a prezzi accessibili in Israele di centinaia di migliaia di unità.
[…] Sulla base della vittoria per accordo della prima fase, che include l’estinzione della speranza araba per la creazione di uno stato a ovest del Giordano, gli arabi di Giudea e Samaria avranno due strade aperte per loro:

Pace e identità locale
Quegli arabi di Giudea e Samaria che lo desiderano avranno una nuova speranza per un buon futuro e una vita privata soddisfacente sotto le ali dello Stato ebraico. Il popolo ebraico ha portato tanto bene, tanto progresso, sviluppo e tecnologia a questo paese, e sarà felice di permettere a chiunque desideri vivere qui in pace di goderne. Coloro che scelgono di rimanere qui come individui saranno in grado di godere di una vita molto migliore rispetto ai loro parenti e amici nei paesi arabi circostanti o della vita che possono aspettarsi sotto il governo (corrotto) dell’Autorità Palestinese.
Questa sarà la vita con il massimo dei diritti democratici: vita, libertà e proprietà; una vita di libertà di religione e di espressione, e molti altri diritti e libertà che caratterizzano uno Stato democratico e progressista di Israele. Conterrà anche il diritto di voto per il sistema che gestisce la loro vita quotidiana.
L’autogoverno degli arabi di Giudea e Samaria sarà diviso in sei regioni governative municipali in cui i rappresentanti saranno eletti in elezioni democratiche: Hebron, Betlemme, Ramallah, Gerico, Nablus e Jenin. Ognuna di queste entità governative riflette la struttura culturale e accettata delle loro società arabe, e quindi garantirà la pace interna e la prosperità economica. Il fallimento dell’idea di “Stato nazione” nel mondo arabo, un’idea portata dall’Europa con le potenze coloniali, può essere visto chiaramente oggi; e secondo l’opinione di molti, questo fallimento è inevitabile data la struttura tribale della società araba. Gli stati arabi che fioriscono sono i regni del golfo costruiti per adattarsi alla tradizionale struttura tribale.
Gli arabi di Hebron non sono come gli arabi di Ramallah, che non sono come gli arabi di Nablus, che non sono come gli arabi di Gerico. Anche il dialetto arabo cambia da regione a regione. Una divisione in governi municipali regionali smantellerà la collettività nazionale palestinese e le ambizioni di realizzare la sua indipendenza, ma allo stesso tempo preserverà la struttura tribale-familiare e quindi consentirà l’esistenza di un sistema stabile per gestire la vita quotidiana libera da tensioni e conflitti interni. Questi governi municipali regionali manterranno un sistema di cooperazione tra loro e con lo Stato di Israele, consentendo così uno sviluppo economico regionale stabile e duraturo.
[…] Come notato, gli arabi di Giudea e Samaria saranno in grado di condurre la loro vita quotidiana in libertà e pace, ma non di votare per la Knesset israeliana in una prima fase. Ciò preserverà la maggioranza ebraica nel processo decisionale nello Stato di Israele. Come spiegheremo diffusamente in seguito, questa è, anche se una situazione imperfetta in termini di diritti civili, ma è certamente ragionevole; potrebbe anche essere la migliore soluzione possibile, date le complesse circostanze dello Stato di Israele in Medio Oriente. A lungo termine, sarà possibile espandere la componente democratica del piano con un ampio accordo regionale con la Giordania, in cui gli arabi di Giudea e Samaria potranno votare per il Parlamento giordano e quindi realizzare il loro diritto di voto

Qualche dubbio, sembra sfiorare persino Smotrich, che subito si corregge però, confermando l’antico motto: excusatio non petita, accusatio manifesta.

«E no, questo accordo graduale non trasforma lo Stato di Israele in uno “Stato di apartheid”. Un regime di libertà non inizia e finisce con il diritto di voto e di essere eletti. Non c’è dubbio che questo sia un diritto fondamentale in una democrazia, ma non è esplicitamente la sua unica definizione. Oggi, includiamo tutta una serie di libertà e diritti sotto il nome di democrazia: il diritto alla vita, alla dignità, alla proprietà, alla libertà di religione, di espressione e di movimento, e altro ancora. La maggior parte di questi diritti e libertà sarà garantita all’interno del piano per gli arabi di Giudea e Samaria, compreso il diritto di voto nelle amministrazioni comunali che controllano la loro vita quotidiana. La mancanza del pieno diritto di voto per il parlamento nazionale non significa regime di apartheid; Tutt’al più, è una componente mancante nel paniere delle libertà o, se vogliamo, un deficit della democrazia.
[…] Possiamo imporre la sovranità israeliana su tutti i territori della Giudea e della Samaria senza concedere agli arabi che vivono lì il diritto immediato di votare per la Knesset, e rimanere comunque una democrazia. È vero, non una democrazia perfetta, ma pur sempre una democrazia. La realtà non è perfetta. Come abbiamo scritto nell’introduzione, lo Stato di Israele si trova di fronte a una sfida esistenziale senza precedenti, e se il modello che gli permette di affrontare questa sfida include un certo deficit a livello democratico, allora questo è certamente un prezzo tollerabile da pagare. La situazione israeliana è unica, e quindi non dovremmo farci scoraggiare se il modo in cui Israele la affronta è unico

Israele è diverso. E nel suo eccezionalismo esclusivista, le regole funzionano diversamente. Quindi vale tutto, a discrezione della casta dominante che dispone e decide a proprio piacimento, senza curarsi di niente e nessuno, fuori da ogni diritto riconosciuto. E lo fa perché investito di una superiore missione su base confessionale e presunzione… etnica (stavamo per scrivere “razziale”)!

«Quando si tratta di risultati, gli arabi di Giudea e Samaria sotto il dominio israeliano avranno molti più diritti di quanti ne abbiano ora, e certamente più di quelli che avranno sotto qualsiasi forma di governo arabo, anche senza avere il diritto di voto alla Knesset (nella prima fase). Coloro che ignorano la violazione dei diritti democratici nei regimi arabi e desiderano stabilire un’entità nazionale per gli arabi di Giudea e Samaria, dimostrano la loro mancanza di cura per i diritti fondamentali “il giorno dopo”. Ciò che a loro interessa è solo che non dovrebbero essere parte di un regime di “apartheid” agli occhi del mondo. Sono convinto che sotto il dominio israeliano, gli arabi di Giudea e Samaria avranno molti più diritti e libertà democratiche che sotto qualsiasi altro regime. Pertanto, in una visione più ampia – più ampia delle accuse che verranno rivolte contro di noi – il piano “Una Speranza” gode di un vantaggio anche a livello democratico

Per il momento i palestinesi (gli “arabi”) che vivono e languono sotto il “dominio israeliano”, in quello che agli occhi del mondo appare in tutto e per tutto un “regime di apartheid”, di diritto non ne hanno alcuno. Ma sono solo un dettaglio secondario. E se proprio il resto del mondo si ostina a non capire: “non importa quello che dicono i gentili, quanto quello che facciamo noi ebrei”.
In fondo, si tratta della via israeliana alla democrazia. Chi siete voi altri per contestare? Sarete mica antisemiti?!?

«Le cose sono molto più facili per noi. Il decisivo piano “Una Speranza” si basa sull’innata fede nella giustizia della nostra causa, sul patriottismo nativo e sull’orgoglio nazionale, che stanno crescendo i sentimenti in una larga fetta della società israeliana

In prospettiva, se le medesimi aspirazioni vengono coltivate da un palestinese, si chiama “terrorismo”.
Ancora una volta, cambia il lessico e muta la definizione per immutata sostanza.
Ma con ogni evidenza, la situazione di Gaza ci insegna che anche questa soluzione è ormai superata, con le “zone umanitarie” istituite dall’esercito israeliano trasformate in mattatoi per la macellazione degli sfollati.
Dopo l’istituzione dei prossimi campi di concentramento, o comunque li si voglia chiamare, ci sarebbe solo un ultimo passaggio da fare…
Intanto si sondano le reazioni, ma sulla volontà è lecito non coltivare troppi dubbi, giacché sembrano non esserci più limiti.

Tornando all’intraprendente sir Starmer, è lo stesso che funge un po’ come il trainer motivazionale, in competizione col guitto francese, dei ringhiosi ectoplasmi europei che si fanno chiamare “Volenterosi”, impiccati al cadavere di uno Zelensky, per la guerra ad oltranza (su procura, intanto che si armano per scatenare un conflitto diretto) contro la Russia, proponendosi come capo cordata dei trafficanti d’armi continentale, quale ostensore di fermi principi democratici e solido difensore dei diritti umanitari (rigorosamente a targhe alterne).
Peccato che a Gaza i “Volenterosi” non siano mai pervenuti. Laggiù armano l’aggressore contro l’aggredito. Lì le sanzioni per l’Aggressore non valgono, dinanzi al primo genocidio in mondovisione, silenziato per ragioni di stato e sponsorizzato dalle cosiddette “democrazie liberali”. Il ché fa di quell’osceno monumento all’ipocrisia, chiamato “Occidente collettivo”, un complice a pieno titolo. Quando dinanzi all’abnormità dei crimini dell’eliminazionismo genocidario della Germania nazista ci si chiese come fosse potuto accadere, oggi abbiamo la piena risposta. E sappiamo che non sarà mai più. Anzi!

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