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STORM IS HERE

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Dismessa la maschera della finzione democratica, finalmente l’Impero si rivela per ciò che è. E dobbiamo essere riconoscenti a Donald Trump, prossimo alla sua incoronazione imperiale, per avercene mostrato il vero volto, farsesco e feroce, senza tanti infingimenti ed ipocrisie.
Come certe favolette manichee su “Aggressore e Aggredito”, ai panegiristi di corte, ed ai re clienti al guizaglio, piace sostenere che l’egemonia USA è innanzitutto una supremazia morale, in un mondo basato sul rispetto delle regole.
Dimenticano sempre di specificare, che le famose “regole” vengono definite unilateralmente dall’Impero. Imposte come universali, sono modellate sugli interessi USA e valgono fintanto convengono a loro, salvo violarle o modificarle a propria insindacabile discrezione, ogni qualvolta queste non siano giudicate più utili. Per tutto il resto, basta mentire.
Che è un po’ il marchio identificativo di fabbrica di tutte le concezioni imperiali, che a noi piace diluire sotto colate di pura ipocrisia, dietro la facciata friabile dei “trattati di intesa”, che sanciscono il nostro servaggio, all’ombra delle compiacenti oligarchie delle elites coloniali. Sudditi, che si definiscono “alleati”; servi, che si credono padroni. A passare da protettorati a colonie è un attimo.
Per il suo imminente insediamento alla Casa Bianca nei paludamenti di presidentissimo, The Donald promette dazi generalizzati per tutti, a misura di ciò che un Impero al tramonto del suo inevitabile declino intende per “relazioni internazionali”: imposizione di dazi del 25% sulle importazioni di Messico e Canada, con un implemento del 10% su quelle dalla Cina.
Ma Trump ha proposto anche:

“dazi universali del 60% da imporre su tutti i beni cinesi in modo da attuare il decoupling e del 10% o 20% su tutte le merci provenienti dal resto del mondo. Il tycoon ha persino minacciato di introdurre dazi del 100% sulle importazioni dai Paesi che stanno riducendo l’uso del dollaro (chiaro il riferimento ai BRICS) e del 200% o più sui veicoli importati dal Messico”.
Nonché, “dazi a tappeto in nome della sicurezza nazionale, guerra commerciale contro tutto e tutti, decoupling dalla Cina e addirittura il disimpegno o l’uscita degli USA dalle maggiori organizzazioni internazionali”.
(Fonte, ISPI)

L’estensione a pioggia di dazi è prevista anche per gli “alleati” europei. Sono previsti dazi del 20% se questi non aumenteranno ulteriormente le importazioni di petrolio e gas liquido statunitense (più costoso, più inquinante, e qualitativamente assai peggiore), insieme ad un ulteriore pacchetto supplementare di dazi doganali del 25%. In pratica, siamo ritornati alla diplomazia delle cannoniere; ovvero, se preferite, alla politica rooseveltiana del “grosso bastone”.
Già che c’era, nel suo primo intervento ufficiale The Donald va fantasticando circa l’annessione del Canada agli Stati Uniti, l’occupazione di Panama invasa dall’esercito cinese, e l’imposizione alla Danimarca (che è praticamente una fedele propaggine dell’Impero, che da sempre si offre come ossequiosa portaerei proiettata nel Mare del Nord) di cedere la Groenlandia, minacciando tanto di intervento militare in caso di diniego. Con il paradosso che dinanzi ad un attacco militare a paesi NATO questi dovrebbero richiedere, in virtù dei dettami dell’alleanza, aiuto proprio all’aggressore per essere difeso dalla sua stessa invasione. Che è una roba magnifica da trascendere persino il surreale!
E se questo sarebbe l’Alleato, pensa i nemici!

In tutto ciò, nonostante ciò, da tempo ha trovato un proprio spazio trasversale, la leggenda fortunata di un Trump “pacifista”: un sociopatico, certo! Ma avverso alle guerre, perché non funzionali agli affari, nella sua mentalità da speculatore immobiliare.
E ciò dimostra come il mondo sia in realtà popolato da inguaribili coglioni che vivono di fantasie, in piena dissonanza cognitiva.
Curioso, perché bastava semplicemente osservare i fatti, e constatare come Trump nei modi e nei toni, così come per vocazione, abbia sempre esaltato se stesso come un “presidente di guerra”. E l’imposizione di dazi punitivi alla base di ogni guerra commerciale, altro non è se non l’anticamera di conflitti aperti e rimessi alla risoluzione armata, come nella Storia è sempre accaduto senza eccezioni.
Che poi The Donald sia un gran cazzaro (l’ennesimo!), non ci sono dubbi. Ma questo non lo rende meno pericoloso
Forse sarebbe il caso di ripassare cosa sia stata la prima presidenza Trump e quale sia la sua comprovata propensione per la “pace” (eterna?)…

«Era un po’ strano che Trump avesse voluto presentarsi come presidente di guerra. Lo era già. Durante la campagna elettorale aveva detto che intendeva “bombardare di brutto” l’ISIS, e a cinque mesi dal suo insediamento gli Stati Uniti avevano scatenato una devastante offensiva aerea su Raqqa, la città siriana che l’ISIS aveva proclamato sua capitale. Quell’estate ero embedded con le truppe di terra arabe e curde ed assistere dal vivo a un atto di guerra totale contro un tessuto urbano che ospitava ancora un’importante popolazione civile mi aveva sconvolto. Nel giro di quattro mesi avevano impiegato migliaia di proiettili, missili a guida laser Hellfire e bombe da una tonnellata. L’artiglieria di marina aveva integrato il fuoco di sbarramento con più di trentamila colpi. L’asimmetria era dalla origini la caratteristica più vistosa della “Guerra al Terrore”, ma a Raqqa era andato in scena qualcosa di inedito: una clamorosa dissonanza dall’impatto delle armi americane e l’assenza di militari americani sul terreno. Ogni giorno, per tutto il giorno, il sibilo delle bombe in caduta, e poi alti pennacchi di polvere e fumo. Ma al fronte incontravamo pochissimi soldati americani. Nella campagna erano morti circa diecimila alleati siriani degli Stati Uniti, contro un solo americano. Il che spiega perché da noi della battaglia non si parlasse quasi mai. Nelle mie tre settimane al fronte, avrò visto due, tre inviati stranieri, non di più.
Sono tornato a Raqqa all’inizio del 2020. Sebbene per riaprire le strade avessero scavato strade tra le montagne di macerie disseminate di corpi e ordigni inesplosi, sul piano visivo la distruzione era talmente assoluta da impedire anche solo l’orientamento. Era come se l’energia cumulativa del bombardamento americano avesse sgretolato l’ordine naturale delle cose, lasciandosi dietro una realtà escheriana a cui la mente faticava ad adattarsi. Scalinate appese in verticale alle armature piegate; automobili capovolte; tetti che sporgevano con angoli inverosimili; lastre di cemento accartocciate come stracci; alberi piegati da esplosioni antiche. A interi isolati mancava un piano, manco fosse passata sopra la falce di un gigante. Alcuni edifici parevano sfidare le leggi della fisica, come qualcosa li avesse bloccati a metà del crollo….
Non c’era una struttura, casa, recinzione, scuola, risparmiata dagli americani. Tra le rovine vivevano un centinaio di migliaia di persone: occupavano ogni anfratto abitabile di grattaceli mezzo collassati, ammucchiati in stanze dai soffitti piegati e i muri convessi, tra masse di cemento che letteralmente li schiacciavano da tutti i lati. Molti avevano perso affetti, arti, o entrambe le cose. L’unico ospedale pubblico era stato distrutto. Quando il direttore mi aveva portato a vedere la struttura, all’avanguardia da intera, ci eravamo fatti strada a fatica. Ogni superficie era annerita dall’incendio. Quel che restava delle attrezzature sanitarie era sparso tra le macerie: pile bianche di gesso, barelle contorte, lettini sfasciati. Tutte le macchine per le radiografie, quelle per le risonanze magnetiche, e gli scanner TC erano danneggiati irreparabilmente

Per questo si parla solo della distruzione di Aleppo (lì a bombardare erano i russi cattivi, il villain perfetto per la propaganda imperiale). Poi è arrivata Gaza, che Trump minaccia di livellare (come se fosse rimasto in piedi qualcosa da distruggere) per compiacere l’alleato israeliano, che peraltro ha da tempo superato il maestro in un’opera scientifica di devastazione capillare, facendo benissimo da sé con un bel genocidio consumato in diretta per chi vuole vedere, ma che evidentemente non disgusta le sedicenti democrazie del cosiddetto “mondo libero”.

«[…] Nessuno tra diplomatici, imprenditori, opportunisti e volontari che per 19 anni avevano popolato queste zone era rimasto. Non ho incontrato neanche un americano. In questo senso, Raqqa era un finale perfetto per la tragica saga delle forze armate americane al principio del XXI° secolo: uno spettacolo di violenza senza precedenti, seguito dall’indifferenza anch’essa senza precedenti per la desolazione umana e fisica provocate.
Siccome gli elettori a stento sapevano dove fosse, Raqqa non aveva fatto di Trump, nemmeno ai suoi occhi, un presidente di guerra. E per motivi sostanzialmente simili non c’era riuscito l’Afghanistan.
[…] Agli occhi di Trump, per quante comunità e vite distruggesse. Una guerra che gli americani non vedevano, non era reale.»

Luke Mogelson
“La tempesta è qui”
Orville Press, 2023

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